Roma, la vecchia matrona dai fianchi larghi e dal cuore stanco, si sveglia per bene solo quando sente odore di sacro e di potere. Il 18 maggio 2025, Piazza San Pietro si trasforma in un palcoscenico blindato per l’inizio solenne del Ministero Petrino di Papa Leone XIV, nuovo locatario del trono di Pietro. Ma più che una festa di quartiere col clero in gita, qui si parla di una Celebrazione Eucaristica con tutti i crismi, nel senso più liturgico e anche più mondano del termine.
Alle sei del mattino già si sgomitano i fedeli: un gregge sterminato da 250.000 anime e pure qualche corpo diplomatico incravattato, in arrivo da mezzo mondo. Alle nove, Leone XIV attraversa via della Conciliazione sulla papamobile, benedice con lo sguardo e sorride col freno a mano tirato: sa che ogni gesto, oggi, vale un editoriale. Ma prima di salire all’Altare della Confessione, si reca da chi ha fondato tutto: in preghiera silenziosa presso la Tomba di Pietro, quasi a chiedere il permesso prima di sedersi sul trono più scivoloso della cristianità.
La Celebrazione Eucaristica è officiata in pompa magna. Durante il rito, il Pontefice riceverà il Pallio e l’Anello del Pescatore — simboli tutt’altro che ornamentali: uno richiama il Pastore, l’altro il pescatore di uomini. Niente paccottiglia, insomma. Ma dottrina con la “D” maiuscola. Il Vangelo proclamato è quello di Giovanni, mica i rotocalchi: “Pasci i miei agnelli”. Un richiamo che sa più di responsabilità che di trionfo.
Nel Rito dell’obbedienza, stavolta non solo cardinaloni e vestali in porpora: ci sono anche dodici fedeli comuni, a ricordare che la Chiesa non è solo gerarchia ma anche corpo vivo. Donne, uomini, giovani e consacrati: un campione del Popolo di Dio che giura fedeltà al nuovo Papa, come in un antico giuramento feudale, ma con microfoni e streaming.
Nel cuore della Messa, l’Omelia. Qui Leone XIV si giocherà la prima mano: o commuove, o lascia tiepidi. Sarà il suo manifesto dottrinale, la bussola per capire se il timone andrà più verso la Tradizione o verso la confusione sinodale. Da buon agostiniano, probabilmente tenderà la rete tra i due.
Alla fine della liturgia, la Preghiera Universale risuonerà in varie lingue, come si conviene a una Chiesa che si dice cattolica sul serio, non solo nei comunicati stampa. Sarà un canto planetario, un’orazione globale che osa invocare pace, giustizia e pure la famiglia. Ma con ordine: la famiglia, quella tradizionale — fondata sull’unione tra uomo e donna — viene menzionata come pilastro sociale e spirituale, in barba ai funambolismi del politicamente corretto.
Presenti all’appello diplomatico circa 200 delegazioni da ogni angolo del globo. Dall’Italia, ovviamente, Sergio Mattarella e Giorgia Meloni, entrambi in punta di scarpa lucida. Dall’Europa, qualche primo ministro e molti yes-man in giacca blu. Gli assenti si notano più dei presenti, ma il Vaticano ha imparato a benedire anche le sedie vuote.
Questo inizio di pontificato non è solo un cambio di chiavi nel palazzo apostolico. È un messaggio muscoloso al mondo: la Chiesa è viva, respira, lotta e prega. Non si chiude nei sacrestani, ma spalanca le porte, anche se con controlli ai raggi X e preti col pass.
Roma, in questo 18 maggio, sembra un gigantesco organo liturgico: vibra, canta, si commuove. E Papa Leone XIV — tra incenso, Vangelo e flash — ricorda a tutti che la fede, quella vera, non è una coperta per dormire, ma un elmetto con cui affrontare il caos della modernità.