Si apre il sipario: Trump al telefono con Putin, il Papa che si inserisce in regia. Titolo della pièce? “Parliamone.” Genere? Commedia tragica. I grandi della Terra si scambiano parole dolci mentre l’Ucraina brucia. E noi spettatori, costretti ad applaudire un copione già visto.
Trump e Putin al telefono per 75 minuti. Un’ora e un quarto di fiato sprecato. Di cosa abbiano parlato, non si sa. Ma le dichiarazioni finali sono sempre le stesse: “colloquio positivo”, “proficuo scambio di vedute”, “desiderio di pace”. Tradotto: nulla. Il sangue continua a scorrere, i missili a volare, la gente a crepare. Ma almeno i telefoni funzionano.
Trump, con la sua solita faccia da poker e la grammatica di un cartellone pubblicitario, ci fa sapere che “nessuna pace immediata è possibile”. Grazie Donald, non l’avevamo notato. Almeno è sincero: le promesse le lascia ai poeti. Gli altri, invece, le fanno e le disattendono con metodo scientifico.
Putin, nel frattempo, gioca la carta della vittima: Kiev sabota, Kiev provoca, Kiev vuole la guerra. Un disco rotto, usurato più delle sue giacche da comandante supremo. Il solito teatrino, dove si litiga su chi ha cominciato, mentre le bare si moltiplicano.
E poi c’è il Papa. Uno dei pochi che almeno ci crede. Leone XIV, armato solo della sua voce, prova a infilare una parola di buon senso tra due che si detestano cordialmente. Ha parlato con Putin, ha accennato a ricongiungimenti familiari, a dialoghi veri, a pace vera. Gesti, non slogan. Parole pacate, eppure più forti dei proclami muscolari degli altri due.
Il Papa non fa miracoli — lo sanno pure in Vaticano — ma almeno ci prova. E forse è proprio questo che dà fastidio: uno che non ha né eserciti né gasdotti, eppure riesce ancora a parlare con dignità. In un mondo dove il valore di una parola si misura in like o in testate nucleari, suona quasi rivoluzionario.
Nel mezzo, la tragicommedia si arricchisce: si parla persino di riportare a casa i bambini ucraini deportati. Ma perché, ci chiediamo, serve una telefonata tra capi di Stato per capire che un bambino non si ruba? Davvero serve un summit per restituire un figlio a sua madre? Se sì, allora siamo messi peggio di quanto credevamo.
La verità è che la diplomazia è morta. Al suo posto c’è un circo di dichiarazioni costruite per i giornali, di telefonate annunciate in pompa magna, di leader che confondono la comunicazione con la politica. La guerra va avanti, la pace resta un concetto da convegno.
Alla fine, resta solo il rumore delle bombe e il silenzio degli incapaci. Il mondo applaude ai colloqui, ma nessuno si alza dalla sedia per fare qualcosa. Le parole volano, sì. Ma i cadaveri restano dove cadono.
E noi, da questa parte dello schermo, assistiamo inermi. Con la sola consolazione che almeno qualcuno, come il Papa, prova a usare la parola pace senza sputarla addosso alla verità. Per il resto, niente da fare: la pace può aspettare. Prima viene la scena. Poi, forse, l’umanità.