Il Giro d’Italia, macchina organizzativa perfetta come un orologio svizzero, ha chiuso la sua 108ma edizione niente meno che nel cuore della Cristianità: il Vaticano. E che scena, signori! Non è cosa di tutti i giorni vedere i giganti della bicicletta sfrecciare tra mura millenarie, accolti da un Pontefice che — sorpresa delle sorprese — non solo ha sorriso e salutato, ma si è mostrato ben più che informato e coinvolto. Un evento da incorniciare, destinato a restare nei libri e forse anche nei Vangeli sportivi.
E attenzione: non è stata la solita passerella da cartolina turistica. Il Giro in Vaticano ha toccato corde profonde, dimostrando che, a volte, il sacro e il profano si parlano meglio di certi politici in prima serata. Sport e spiritualità, invece di escludersi, si sono illuminate a vicenda. Chi non ha sentito un brivido — tra le campane di San Pietro e il rombo delle ruote — era probabilmente in modalità aereo.
Alle 15.30 in punto, Porta del Petriano: folla compatta, naso all’insù, occhi lucidi. Tifosi, turisti, pellegrini, tutti rapiti. Perché, diciamolo, vedere i campioni delle due ruote alla corte di Leone XIV non è spettacolo da poco. E qui inizia la cronaca di una giornata che profuma di Storia, quella vera.
Leone XIV, il coach dell’anima
Papa Leone XIV non si è limitato a benedire e via. No. Ha parlato ai ciclisti con il tono di un vecchio allenatore che ne ha viste tante e che sa come si parla al cuore. “Siete modelli per i giovani”, ha detto. Ma non era il solito pippone da cerimoniale: la voce era ferma, lo sguardo diretto, e quel timbro che non si dimentica. Ha invitato a curare corpo, mente e spirito — perché, a suo dire, è così che si diventa davvero grandi. Sia in sella che nella vita.
Una lezione più da spogliatoio che da sacrestia. E ci voleva. Perché Leone XIV, a differenza di certi burocrati della fede, sa dove mettere l’accento. È un Papa con i piedi per terra, che non ha paura di sporcarsi le mani. E benedica Dio: eventi come questi, se privi di anima, restano solo cartoline patinate. Non questa volta.
Yates, Bernal e i giganti della fede (e della bici)
L’arrivo al Circo Massimo non è stato solo il finale di una corsa, ma un tripudio degno di un’epopea. Simon Yates, in Maglia Rosa, ha dominato. Ma più del cronometro, è stato l’equilibrio tra successo e spiritualità a fare la differenza. Il suo è stato un trionfo che ha saputo emozionare anche chi non sa distinguere un tornante da un traguardo volante.
Con lui c’erano altri leoni: Carapaz, Bernal, e gli azzurri Caruso, Pellizzari e Tiberi. Ognuno con la sua storia, il suo dolore, la sua resurrezione. Bernal, con quella fede ostinata, ha detto: “Se non fosse per Dio, non sarei qui”. Parole che, in un mondo spesso cinico, suonano come pietre rotolanti sul cuore. Pellizzari ha mostrato la sua croce al collo con orgoglio, e non solo come accessorio fashion. Per lui è un’ancora. Per noi, un promemoria.
Una pagina che resterà
Il passaggio del Giro in Vaticano è stato molto più che una tappa sportiva: è stata un’alleanza simbolica tra cielo e terra, sudore e preghiera. Un’alchimia riuscita, rara e potente. In un mondo dove tutto corre — spesso senza meta — questo evento ha messo ordine. Ha detto che lo sport non è solo record e business, ma anche esempio, ispirazione, e perché no, vocazione.
Il primo giugno 2025 non è solo una data da archiviare. È un monito e una speranza: la dimostrazione che la bellezza può ancora esistere, se si osa intrecciare muscoli e anima. Leone XIV non ha parlato solo agli atleti. Ha parlato a noi. Ha detto, tra le righe, che anche pedalando si può onorare Dio.
E allora sì, viva il Giro. Viva lo sport che educa. E viva un Papa che non si limita a osservare, ma pedala idealmente con noi.