Altro che cerimonia di rito. Il 20 maggio 2025, Papa Leone XIV ha visitato la Basilica di San Paolo fuori le Mura, e l’ha fatto senza fronzoli, ma con una chiarezza che lascia poco spazio ai fraintendimenti: la fede, quando è autentica, parla più del potere. E quando il potere si mette al servizio della fede, allora può succedere qualcosa di raro: il sacro si fa credibile.
Nel pomeriggio, Leone XIV è arrivato in automobile al piazzale della basilica. Nessun trionfalismo, nessuna orchestrazione da stato maggiore: solo cori, mani giunte e applausi sinceri. Ad accoglierlo, il Padre Abate Dom Donato Ogliari e il cardinale Arciprete James Michael Harvey, custodi di un luogo che da secoli impone silenzio, raccoglimento e rispetto.
Ma non era solo una tappa d’agenda ecclesiastica. Sembrava piuttosto l’inizio di una rotta nuova, guidata da un timoniere che conosce il peso della tradizione, ma che non ha paura di affrontare i venti del cambiamento. La stola sopra la mozzetta, il rocchetto bianco, i passi lenti insieme ai benedettini: ogni gesto, sobrio e misurato, ha parlato più di mille discorsi preparati a tavolino.
Per chi era lì, il momento dell’ingresso è stato qualcosa di più di una cerimonia: una partecipazione collettiva, un’emozione quasi tattile. Tutto si è concentrato, come un fuoco sotto la cenere, dinanzi al sepolcro di San Paolo. Inginocchiato, il Papa ha pregato in silenzio. Nessuna scenografia, nessun effetto speciale. Solo l’essenziale, che basta e avanza.
L’omelia ha centrato il bersaglio, senza giri di parole. Citando Benedetto XVI, Leone XIV ha ricordato che “Dio ci ama” — frase semplice quanto micidiale, se presa sul serio. In un mondo che predica la semplificazione ma si contorce tra complessità artificiali, il Papa ha rilanciato parole come grazia, giustizia, fede. Concetti oggi considerati quasi sospetti, ma che restano l’ossatura del messaggio cristiano.
“La salvezza non venga per incanto, ma per un mistero di grazia e di fede,” ha detto il Pontefice. Parole che suonano come una sfida: alla pigrizia spirituale, al nichilismo mascherato da realismo, alla tentazione di delegare tutto alla struttura. Il cammino sinodale, tanto evocato quanto osteggiato, trova in frasi come queste il suo vero carburante.
Nel mosaico dei presenti, si è vista l’universalità della Chiesa. Dai cori latini ai pellegrini sudamericani, passando per qualche scaramantico tifoso romanista in cerca di benedizioni per la prossima stagione. Il sacro non si scandalizza del profano, se quest’ultimo è intriso di cuore e non di volgarità. Anche questo è linguaggio spirituale, purché non perda il senso del limite.
E poi, come in ogni grande racconto, c’è stato il momento della verità emotiva. Una donna argentina, visibilmente commossa, ha espresso la speranza che Papa Leone XIV possa essere degno erede del suo connazionale Francesco. Non era solo un augurio: era un atto di fiducia. Perché i Papi passano, ma lo sguardo del popolo resta.
L’applauso finale, dopo la benedizione apostolica, ha avuto il suono di qualcosa che non è finito, ma appena cominciato. Tra le mura di una basilica che ha visto secoli di gloria e di dolore, si è insinuata una voce nuova. Niente proclami, solo un messaggio limpido: la Chiesa non è un museo di riti, ma una comunità in cammino, con le mani sporche di mondo e lo sguardo rivolto al cielo.
Leone XIV, oggi, non ha parlato da sovrano, ma da pastore. E se il suo esempio sarà coerente con le parole ascoltate, allora sì, potremo dire che una piccola luce è stata accesa. E con un po’ di vento giusto, potrebbe diventare un fuoco che scalda, e illumina davvero.
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