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Leone XIV e l’arte di rendere credibile il futuro della Chiesa ferita

Se c’è una cosa che Papa Leone XIV ci ha già insegnato, è che non ha proprio tempo da perdere con il politicamente corretto. Il nuovo pontefice parla chiaro, e questo – in un’epoca in cui la Chiesa non è esattamente nel suo Rinascimento – è già una notizia. Leone XIV ha il coraggio di dire che la Chiesa è ferita. E il colpo, attenzione, non viene da fuori. No, la ferita è interna, inferta da uomini e donne che della fede hanno fatto vetrina, perdendo per strada la bussola e, con essa, la credibilità.

Nel cuore del Vaticano, oggi, le ordinazioni presbiterali nella festa della Visitazione. Il Papa ha imposto le mani su undici nuovi sacerdoti. Non solo una bella cerimonia, ma anche l’occasione per esortare il clero a svegliarsi. Essere prete oggi non significa indossare la talare come fosse una divisa da gala, ma vivere con coerenza. Non si chiede la perfezione – quella la lasciamo ai santi – ma almeno un minimo sindacale di credibilità. E Leone XIV lo dice chiaro, senza fronzoli: la Chiesa non ha bisogno di figuranti, ma di uomini trasparenti, con la schiena dritta e la vita in ordine.

Vite conosciute, vite leggibili, vite credibili!” ha tuonato. Tre parole, un programma pastorale. Basta con le maschere. Basta con i sermoni che parlano del nulla mentre fuori il mondo brucia. Il Papa lo sa bene: senza credibilità, la fede diventa folklore. E se il pulpito non sa più parlare al popolo, tanto vale chiudere la Chiesa e aprire un museo.

Nel suo discorso, Leone XIV ha ribadito che solo l’amore di Cristo libera. Un’affermazione che oggi suona quasi scandalosa, in un mondo abituato a confondere la libertà con l’egoismo da supermercato. Eppure, è questo l’unico possesso che merita di essere condiviso: non il potere, non le cariche, ma l’amore. Un messaggio semplice, che però dà fastidio proprio perché è vero.

Nella scia di Papa Francesco, Leone XIV ricorda che la Chiesa non è un salotto per anime pure, ma un campo aperto. L’autoreferenzialità è muffa sotto l’altare. Serve aria fresca. Serve coraggio. Serve, soprattutto, tornare a parlare il linguaggio degli uomini e delle donne comuni, non quello criptico dei teologi di professione chiusi nelle torri d’avorio.

Eppure, c’è anche spazio per la speranza. Leone XIV conosce la materia umana. Sa che la santità, a volte, si nasconde nelle pieghe dell’ordinario. E allora invita i nuovi sacerdoti a essere “persone in carne e ossa”, non fantasmi di dottrina. Il Vangelo si predica meglio con i calli sulle mani che con le medaglie sul petto.

Non sarà questo a risolvere tutto, certo. Ma è un inizio. Un sasso lanciato nello stagno della tiepidezza ecclesiale. Una Chiesa credibile – ricorda Leone XIV – è una Chiesa che non si chiude, ma si sporca le mani. Una Chiesa che ha ancora qualcosa da dire in un mondo anestetizzato.

Nel finale, la voce del Papa si fa quasi un appello: “Siamo di Dio: non c’è ricchezza più grande da apprezzare e da partecipare”. Una frase che sembra rimbombare sotto le volte di San Pietro come una chiamata alle armi – spirituali, s’intende – per un clero che deve scegliere se essere luce o ombra.

Perché qui non si tratta di salvare le apparenze. Si tratta di salvare le anime. E Leone XIV, almeno su questo, pare aver le idee abbastanza chiare.

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